4.

Il canto XXX del «Paradiso»

Questo canto, uno dei piú alti e potentemente organici della Divina Commedia, va anzitutto considerato come momento di piú profonda ripresa poetica nello svolgimento dell’ultima parte del Paradiso, che va appunto dall’apertura di questo canto all’esito terminale del viaggio spirituale-poetico nella diretta visione di Dio, nel canto XXXIII.

Ben si avverte infatti uno stacco rispetto al canto XXIX, impostato come un lungo ed intero discorso di Beatrice: certo non una sterile lezione didascalica, ma anche (pur ricco com’è di un intreccio vivo ed attivo fra anticipazione di visioni celesti, profonde meditazioni metafisiche e una polemica essenziale nell’economia generale dell’ultima zona del Paradiso) meno liricamente premente ed intenso; anche se nel finale, in cui Beatrice richiama piú direttamente Dante alla meditazione ammirativa sulla natura e sul numero indefinito degli angeli, che riflettono e moltiplicano in loro l’unica luce di Dio, la poesia piú intensa ed intera non manca di vibrare e di anticipare la piú grande tensione del canto XXX e della zona intera dell’Empireo.

Ma, anche misurata su questi ultimi versi

(Vedi l’eccelso omai e la larghezza

de l’etterno valor, poscia che tanti

speculi fatti s’ha in che si spezza

uno manendo in sé come davanti),

la distanza fra questo movimento piú alacre e lo slancio profondo con cui si apre il canto XXX è pur notevole, ed essa sottolinea il fatto fondamentale che il nuovo canto nasce da una nuova spinta interiore, da una intensificata meditazione e concentrazione poetica che Dante compie recuperando gli stimoli piú forti dell’esperienza dell’ascesa paradisiaca, e sviluppando, in forme piú unitarie ed intere, lo stesso tema del trionfo degli angeli. E questo viene rievocato nel suo aspetto di grandioso spettacolo celeste e nel suo digradare e scomparire fino a lasciare la scena completamente vuota e neutra a preparazione di piú alte e supreme visioni poetico-spirituali, fino a lasciare il cuore del poeta-protagonista occupato solo dall’amore per Beatrice, donna-teologia, e disponibile, attraverso tale tensione amorosa e spirituale, a un piú alto vedere, sempre piú sintetico di prospettive fantastiche e di integrale fruizione intellettuale e spirituale.

Non per nulla il verbo vedere sarà parola particolarmente essenziale in tutto il canto, dispiegando la sua capacità piú intera di visività vertiginosa e pur chiara, a suo modo concreta, che corrisponde centralmente ad una progrediente tensione di esperienza e di presa di coscienza del senso interno ed intero delle miracolose cose viste fino alla coincidenza fra bellezza e verità, pienezza estetica e pienezza spirituale e morale, fino all’attuazione di una beatitudine che è il vertice di una attuazione di perfezionamento interiore.

È su questa via che il canto si dispone, e si dispone l’intero ciclo degli ultimi canti. E tale via è preparata sia dalla disposizione del cuore e della fantasia del poeta nel momento in cui la scena visiva è interamente vuota, sia dalla lode di Beatrice, della sua bellezza e del suo significato per tutta la vita del poeta, sia dalla stessa insistenza con cui in questo canto Dante ritorna sulle condizioni della sua poesia, sulla sua relativa insufficienza a dare espressione adeguata ai sentimenti e alle visioni che lo occupano. E perciò egli invoca la stessa divinità a dargli forza nella sua ardua impresa poetica, per assicurare infine se stesso della propria accresciuta capacità di visione: elementi che si raccordano ad una piú intensa prospettiva di poetica, relativa al senso di eccezionale novità e di piú ardua impresa della poesia di questi ultimi canti dell’Empireo, ben individuata dal poeta nel momento in cui egli si accinge, e concretamente si applica, a questo supremo compito poetico.

Infine l’aver voluto riportare nelle ultime parole che Beatrice (prima di ricomparire, nel canto XXXII, con un puro sorriso, entro la mistica rosa, fuori di ogni effettivo dialogo col poeta) gli rivolge, con calmo vigore, con l’assoluta autorevolezza di un sicuro interprete del giudizio divino, l’aver voluto riportare la sua attenzione di poeta-profeta e giudice al seggio di Arrigo VII e al dramma politico del mondo, dovuto soprattutto alla nequizia dei pastori spirituali, l’aver voluto ribadire, proprio nelle estreme parole di Beatrice, la perentoria giustezza dei propri giudizi e dei propri ideali, ben mostra come in questo canto Dante abbia inteso dare una solida base a tutta la sua ultima ascesa, attraverso il richiamo alle condizioni storiche della terra: sí che la sua stessa visione di Dio e della beatitudo aeternae vitae fosse preparata dalla riconferma suprema del rapporto ineliminabile con la beatitudo huius vitae, e dalla riconferma, per noi, nell’economia della poesia dantesca, dell’importanza ineliminabile dell’elemento etico-politico, senza di cui quella poesia non si sarebbe potuta costruire ed esprimere neppure nelle sue condizioni di poesia della vita celeste e perfetta.

Cosí il canto, al cui centro si espande la trasmutante visione della città celeste, nelle forme mistico-poetiche, simbolico-visive, prima del fiume di luce e poi della mistica rosa, adempie ad una funzione generale nei confronti dell’ultimo gruppo di canti e insieme attua, nella sua particolare autonomia e consistenza, precisi aspetti e modi della poesia dell’ultima zona paradisiaca, con il suo procedimento di formidabile «crescendo» di onde ad un livello sempre piú alto, di forme di una bellezza «sublime» che tende ad un «piú che estetico» e pure si suggella in una evidenza assoluta e perfetta.

* * *

Tre sono le parti fondamentali in cui si articola il canto: l’apertura e l’esaltazione della nuova bellezza di Beatrice, la lunga parte centrale che presenta la visione del fiume di luce dei beati e della mistica rosa, l’ultima parte con il discorso di Beatrice e la sublimazione di Arrigo VII e la condanna dei pontefici temporalisti e simoniaci.

Tre parti fra di loro intimamente organizzate e complementari, dominate dall’intreccio fra il vedere e l’esperienza di Dante e gli interventi chiarificatori e stimolatori di Beatrice: intreccio dinamico di grande potenza poetica, collaborazione delle due voci e dei due personaggi ad una tensione che non si flette mai, in rapporto ad una scena sempre piú piena ed evidente, in un continuo sviluppo in progresso attraverso anelli e gradi di successive a sempre piú possenti possedute visioni.

Il canto si inizia con una altissima apertura (vv. 1-15) realizzando in grandiosa poesia ciò che il canto precedente aveva lasciato inconcluso: cioè il compimento della visione del trionfo degli angeli che a questo punto del poema doveva scomparire per far posto ad altre visioni e ad altri momenti di ascesa. Ma non si tratta di una pura e semplice necessità di completamento narrativo-scenico, sibbene di una potente innovazione poetica che ha tutta la forza e la densità di un movimento riiniziato sul filo piú profondo della visione e dell’esperienza paradisiaca.

Ce lo indica la stessa sfumatura (forse, quasi) non di perplessità e di dubbio (che anzi logicamente è assillo di piú precisa approssimazione scientifica), ma di poetica vibrazione, di linea piú densa e folta che accentua il carattere di lontananza fra terra e cielo, poi approfondita nel contrasto fra «noi» e «profondo», fra l’altezza delle stelle e il «nostro fondo», e che prepara cosí la dimensione tutta celeste e sovrumana del secondo termine di paragone, della visione digradante del trionfo degli angeli. Ce lo indicano l’insistenza iniziale sulle parole numeriche («forse semilia miglia di lontano») che implicano la forza di un’ardua operazione intellettuale-poetica, l’incontro fra il fervere dell’ora sesta (che suscita un sentimento di animata, vitale luminosità), la levità misteriosa e pacata con cui si precisa la posizione, rispetto all’orizzonte, del cono d’ombra che proietta il globo terrestre: giuoco profondo ed inventivo di luce e di ombra, di numeri e di operazioni scientifico-intuitive, che prepara la stupenda scena celeste dello scolorarsi delle stelle minori e poi anche della piú bella, a mano a mano che il sole procede, preceduto dall’aurora (la sua «chiarissima ancella»), con un nuovo moto a contrasto, capovolto, di luce crescente e digradante: luce solare crescente, stingersi della luce delle stelle.

Ce lo indica infine il fatto che Dante qui ha voluto riprendere per la settima volta nel Paradiso (e portandolo al suo impegno piú arduo e al suo esito piú poetico) quel procedimento ben suo di aprire alcuni canti con paragoni astronomici e celesti: un procedimento già lontanamente impostato nella prima canzone petrosa e che nel Paradiso è un modo di ambientare le scene paradisiache dirette, attraverso un elemento terrestre-celeste, una forma di sottile preparazione umano-celeste a quelle visioni dirette e sovrumane, una forma per vincere la difficoltà dell’esperienza paradisiaca attraverso la mediazione di un’esperienza umana già aperta, attraverso il cielo terrestre, al cielo divino.

Ma mai Dante aveva raggiunto, come qui, una tale fusione organica, svolta fra l’amplissimo primo termine di paragone (che unisce la precisazione astronomica dell’ora e del fenomeno celeste diretto – lo scolorirsi delle stelle dell’aurora –) e il secondo che, con linguaggio piú arduo (si notino le espressioni latinizzanti: il «triunfo che lude», il giuoco epiferico del «parendo inchiuso da quel ch’elli ’nchiude») esalta l’effetto profondo della graduata scomparsa del trionfo degli angeli, sempre accordato al «punto» di Dio, che fa miracolosamente insieme da apparente centro e da effettiva circonferenza.

Dove si dovrà ancora notare, dopo quanto abbiamo detto, che questa doppia visione dei due termini di paragone (e tanto meno la sola prima parte del paragone) non può essere in alcun modo astratta dal contesto del canto e degustata a sé come una di quelle «piccole liriche» di cui parlava il Croce e che emergerebbero entro un contesto che può sapere di sforzo (ed è invece genuina tensione) e di romanzo teologico e dottrinale, mentre essa va fatta valere poeticamente in quanto organicamente connessa con tutto il canto di cui è preambolo non puramente narrativo e scenico, ma anticipazione concreta delle sue dimensioni e direttive.

E ben si vede subito come la tensione della visione del cielo e del trionfo degli angeli rifluisca e si commuti nel movimento interno con cui Dante si rivolge a Beatrice, intimamente costretto, necessitato da «nulla vedere» e da «amore»: donde la forza assoluta di quella scena improvvisamente vuota e neutra, che si prepara ad essere occupata da altre piú alte e piú nuove visioni, e di quello scatto tensivo e concentrato sulla donna amata che costituisce termine di amore, oggetto di nuova poesia e di una poetica presa di coscienza delle ragioni stesse del poema, incentrato sul significato che Beatrice ha avuto per Dante.

Dalla visione all’amore, dall’amore alla visione e «loda» della bellezza perfetta e stimolatrice di Beatrice da cui poi sorgerà, con densa catena di tensioni non mai interrotte, il nuovo centrale sviluppo delle trasmutanti visioni della luce di Dio nel «miro gurge» e nella «mistica rosa», entro l’attinta situazione dell’Empireo.

Intanto tutta la energia poetica si riversa e si costruisce in quella «loda» di Beatrice che si prospetta come una ipotesi che si nega e si concreta di fatto:

Se quanto infino a qui di lei si dice

fosse conchiuso tutto in una loda,

poco sarebbe a fornir questa vice.

La dichiarazione di insufficienza del sintetico riepilogo laudatorio di tutto quanto fu detto finora in lode di Beatrice rispetto all’altezza di tale compito, costituisce in realtà l’impostazione solenne ed entusiastica di questo supremo tentativo di Dante di dar espressione a una estrema «loda» di Beatrice, sintetizzata nella terzina seguente, che affronta direttamente la «bellezza» della donna, la quale supera («trasmoda») le possibilità degli uomini, quelle stesse degli angeli e può essere goduta «tutta» solo dal proprio creatore, Dio.

La bellezza ch’io vidi si trasmoda

non pur di là da noi, ma certo io credo

che solo il suo fattor tutta la goda.

E come piú avanti tutta la storia del rapporto Dante-Beatrice sarà sintetizzato nei suoi termini estremi (dalla prima vista di lei sulla terra a questa nuova vista dell’Empireo), cosí qui la prospettiva centrale, piú nuova ed originale della Vita Nuova (la poesia e lo stile della «loda», appunto, che implicava il maggiore sforzo della giovanile poesia dantesca, la sua vittoria sulla concezione cavalcantiana e quella guittoniana e cortese nel senso di un amore gratuito e disinteressato, coincidente con la pura lode della donna), viene ripresa al di là delle prospettive di quell’opera e portata (saltando le ambagi di quella lontana vicenda di base, le tentazioni del sentimento doloroso della cesura della morte o le distrazioni della donna gentile) al suo grado terminale e supremo.

Ora solo Dio può comprenderla e goderla, in un’assoluta circolarità (fra creatore e creatura eccezionale, concreta e simbolica) in cui il poeta si distanzia e insieme si immette attraverso la sua comprensione di tale assoluto, superiore rapporto. E la «loda» dovrà cosí di nuovo risolversi in una complessa dichiarazione, da parte del poeta, dell’insufficienza della sua poesia, che pure, con superbo e delicato intreccio, può richiamare entro questa stessa dichiarazione (atta a riprospettare l’altezza e perfezione di Beatrice) i termini vivi del suo appassionato, entusiastico omaggio e della intensa rievocazione della sua vicenda amorosa: «il rimembrar del dolce riso», la storia del rapporto fra la stessa vicenda e la crescente capacità espressiva della sua poesia di «loda».

Dal primo giorno ch’i’ vidi il suo viso

in questa vita, infino a questa vista,

non m’è il seguire al mio cantar preciso;

dove tutta la poesia (dalla Vita Nuova a tutta la Commedia) è unificata in un unico riferimento a Beatrice, dove tutta la sua stessa vita sentimentale è chiusa fra quel primo momento biografico e questo supremo momento del suo iter poetico-spirituale e dove la insistita dichiarazione di insufficienza e di apparente rinuncia della sua poesia e della sua arte gli permette di sottolineare l’eccezionalità della loda di Beatrice: l’ultimo suo, il limite estremo delle sue forze espressive.

Non erano mancate nel Paradiso (e ben coerenti alla poetica di questa cantica) affermazioni che, dichiarando i limiti e l’insufficienza della sua poesia, ne esaltavano effettivamente i termini tensivi estremi e la stimolavano ad un di piú, ad un sublime sempre piú alto: e si ricordino i versi 79-81 del XIV canto, i vv. 8-12 del XVIII, i vv. 22-24 del XXIII.

Ma qui il valore di tale dichiarazione, mentre sottolinea l’eccezionalità di questo momento (che prepara poi l’allontanarsi di Beatrice nella mistica rosa), è tutto intrecciato con l’effettiva espressione della «loda» e della bellezza di Beatrice, e, mentre afferma il «non plus ultra», i limiti apparentemente toccati dalla propria arte, tanto piú ne attua effettivamente l’altezza, la perfezione artistica estrema. Ché proprio nei versi fino al passaggio al nuovo discorso di Beatrice (come già ha osservato molto acutamente il Sapegno) l’artista chiama a raccolta e mette in azione le risorse piú squisite, delicate ed energiche della sua arte piú matura, della sua alta ars dictandi, che si avvale ormai, con superba superiorità, di una riserva di moduli artistici formata attraverso il lungo esercizio poetico e che qui ha l’ultima sua e piú matura espressione.

E si notino in proposito i latinismi preziosi e solenni («preciso», «desista», «tuba», «deduce»), il giuoco squisito dell’allitterazione e della replicazione («vidi», «vista», «vita», «viso»), lo spostamento al fondo del verso di gerundi vasti e riassuntivi («poetando», «terminando»), l’arduo suono e la costruzione inversa del verso 36 («l’ardua sua matera terminando»), la vibrazione eletta e tenera di «lo rimembrar del dolce riso» e dell’immagine-paragone «come sole in viso che piú trema».

Tutto però, si badi bene, non per puro gusto tecnicistico (Dante non è mai «puro tecnico», ma grande poeta e in forza di ciò grande tecnico): ché la tecnica sapientissima e ardua serve a far risaltare con piú sottile energia un sentimento eccezionalmente aristocratico ed entusiastico. Sí che lo stesso entusiasmo per l’arte, qui cosí altamente esercitato, si fonde con l’entusiasmo per quell’oggetto altissimo (centro del cuore stesso del poeta e di tutta la sua esperienza umana e poetica) che solo Dio può interamente godere e che postula quindi un’arte ancora maggiore («maggior loda») e, ripeto, una fede entusiastica appunto in quell’alto oggetto, possibile promotore di piú alta poesia, e nella stessa poesia, di cui Dante avverte le possibilità ulteriori e progressive inserendo se stesso in una storia non chiusa, in un’apertura di piú alto futuro. Dove fede nell’arte e fede nella poeticità di Beatrice si uniscono a sottolineare quanto Dante avesse alto e fecondo senso della fertilità della sua materia e della forza della sua professione artistica e della sua stessa poesia in generale.

Poi, con robusta impennata, dal v. 36 in poi, proprio dall’interno della dichiarazione che esaltava la eccezionale altezza di Beatrice, la figura di questa, còlta dal poeta nel grado massimo della sua bellezza da lui percepibile, si aderge «con atto e voce di spedito duce», con forza di iniziativa, e interviene nella ripresa narrativo-visiva che dalle sue parole prende inizio e senso di profonda novità e di piú alto livello poetico, secondo quella legge del «piú», del «crescendo», della «tensione» che anima particolarmente la poetica del Paradiso e che qui è portata al suo piú alto equilibrio dinamico.

Le parole di Beatrice annunciano l’uscita dal primo mobile (di cui si sottolinea la qualità di «corpo» di fronte alla condizione di pura luce dell’Empireo) e l’ascesa appunto all’Empireo e realizzano la definizione poetica della condizione di questo cielo immateriale con versi in cui lucidità estrema e vibrazione profonda si uniscono entro un serrato sviluppo a catena ed onda, con un entusiasmo nutrito di un pensiero teologico e mistico che nella forza rivelatrice e sintetica della poesia (non veste di concetti, ma novità integrale e originale piú profonda e radicale) dispiega il suo senso piú nuovo ed intero.

«Noi siamo usciti fore

del maggior corpo al ciel ch’è pura luce:

luce intellettual, piena d’amore;

amor di vero ben, pien di letizia;

letizia che trascende ogni dolzore.

Qui vederai l’una e l’altra milizia

di paradiso, e l’una in quelli aspetti

che tu vedrai a l’ultima giustizia».

Nella seconda terzina, prima i due primi versi, raccordati al centro dalla qualifica della «pienezza» («luce intellettual piena d’amore / amor di vero ben, pien di letizia»), approfondita, nel secondo verso, dalla rima interna, anche se imperfetta («ben»-«pien»), con un crescere dell’aggiunta dei nuovi termini sentimentali-spirituali («amore», «letizia»); poi, nell’ultimo verso, il dilagare appunto della «letizia» nel suo trascendere ogni «dolzore»: la parola non casuale designante una dolcezza piú chiusa e mondana (con il suo riferimento provenzaleggiante alla dolcezza dell’amore cortese) superata dalla «letizia» con la sua pienezza interamente manifestata e la solennità di una parola sacra e latina (San Pier Damiano parla di «laetitia summae pacis»). Né si dimentichi il fatto che nel De vulgari eloquentia (II, VII, 5) letitia è fra le parole del linguaggio «tragico» e che pure «loquentem cum quadam suavitate relinquunt». Cosí come, nella terzina finale, «milizia» e «giustizia» portano un senso nobilitante e severo che si raccorda ad un sentimento ben dantesco della vita appunto come «milizia» e come oggetto ed esercizio di «giustizia» in terra e in cielo.

Le parole di Beatrice danno l’avvio al formidabile crescendo che si sviluppa a piú riprese dal verso 46 in poi, non interrotto, ma rafforzato, e dotato di maggiore spinta e di maggiore consapevolezza del suo intero significato poetico-spirituale, da parte dei nuovi e rapidi interventi della donna-simbolo (che riportano i fenomeni visivi ai loro centri di verità e realtà sovrumana) e dalle conseguenti prese di coscienza del poeta che commuta continuamente visione in esperienza interiore e cosí si prepara a nuove e piú eccezionali visioni.

Sicché, lungi da una poesia «visionaria» e mistica, incapace di autocontrollo e di chiarezza costruttiva o svolta solo in forme spettacolari, la poesia dantesca fa coincidere tensione mistica e forza di visione con un processo effettivo e crescente di esperienza e coscienza, che a sua volta giustifica il crescendo della stessa visione e delle sue allusioni mistico-teologiche fino ad una pienezza poetica integrale, ad un supremo equilibrio fantastico, coincidenza assoluta fra visione e significato interno, fra evidenza immaginativa, oggettiva e interna tensione.

In tale procedere della poesia del canto assumono cosí necessario peso e valore gli interventi di Beatrice e le dichiarazioni di Dante che altrimenti potrebbero apparire rotture del tessuto visivo e poetico, mentre effettivamente ne sono i momenti di controllo dal punto di vista dell’esperienza e coscienza, e gli stimoli e gli incentivi dello stesso crescendo fantastico.

Ciò che è bene evidente nella prima parte della visione dell’Empireo, chiusa fra le parole annunciatrici di Beatrice, le sue nuove «parole brievi» e la inerente dichiarazione del poeta. Infatti le prime parole di Beatrice aprono fulmineamente, attraverso l’intensificazione del paragone-analogia del lampo improvviso e abbagliante, il primo momento della visione, il primo grado visivo-mistico della nuova esperienza (abbacinamento di una luce folgorante che rende Dante privo di ogni vista particolare) appoggiato alla evidente ripresa del racconto di Paolo negli Atti degli Apostoli, XXII, 6 (allusione ben volontaria ad una forma di intera esperienza spirituale: «subito de coelo circumfulsit me lux copiosa; cum non viderem prae claritate luminis illius»: «cosí mi circunfulse luce viva; / e lasciommi fasciato di tal velo / del suo fulgor, che nulla m’appariva»). E, dopo, le nuove parole «brievi» della donna rivelano il senso di questo primo manifestarsi della luce divina e dell’Empireo come grazia che Dio infonde nell’anima beata per renderla disposta a contemplarlo, come modo con cui l’Empireo accoglie i suoi visitatori con una luce folgorante per prepararli a sostenere la successiva troppo intensa visione divina.

E le dirette considerazioni di Dante, scaturite dal rapido susseguirsi della folgorazione e delle parole rapide di Beatrice, mostrano come queste ultime siano servite a commutare la prima impressione di smarrimento in una consapevolezza della sua ascesa e della crescita in lui della sua interiore capacità visiva.

E vidi lume in forma di rivera

fluvido di fulgore, intra due rive

dipinte di mirabil primavera.

Di tal fiumana uscian faville vive,

e d’ogne parte si mettíen ne’ fiori,

quasi rubin che oro circunscrive.

Poi, come inebriate da li odori,

riprofondavan sé nel miro gurge;

e s’una intrava, un’altra n’uscia fori.

La prima visione abbagliante dà luogo all’entusiastico e storico «vidi», con cui Dante dà inizio alla nuova piú evidente visione che presenta quella che poi diverrà la mistica rosa (con un processo conoscitivo, mistico e fantastico, che ha bisogno di tali successive rivelazioni per riprospettare poeticamente una tensione che giunge alla piena rivelazione dell’oggetto sovrumano tanto meglio che attraverso una immediata rappresentazione) nelle forme sontuose e splendenti di un fiume, anzi di una fiumana di luce fluvida di fulgore (e «fluvido» è lezione certo preferibile a «fulvido», traducendo ciò che sta piú a cuore al poeta: la fluidità della luce, lo scorrere impetuoso e denso di una luce viva, non statica e fissa). Un fiume, che poi diverrà la mistica rosa, scorre fra due rive cosparse di fiori, «dipinte di mirabil primavera»: e al movimento della fiumana luminosa corrisponde il movimento alacre, incessante, gioioso delle faville vive (gli angeli) che ne escono, s’immergono nei fiori (i beati) incastonandosi nel loro splendore aureo come mistici rubini e poi, come inebriati dell’odore dei fiori (che è l’odore della santità dei beati), tornano a risprofondarsi nel «miro gurge», nel mirabile gorgo della luce divina che sintetizza, in un’espressione di intensa allusività spirituale, di splendore assecondato dal latinismo nobilitante, la simbolica realtà della luce-grazia divina, incessante e infinitamente profonda, evidenziata in una dimensione sinestetica (colore, odore, spazio e movimento) che sigla l’eccezionale visione dinamica.

Tutto è evidente, sensibile, fantastico, denso e fluido, tutto è tradotto in rappresentazione mossa e scorrente (quasi dimensione che supera la plasticità, la pittura, la musica in una sinteticità della parola piú creativa) e tutto insieme esprime una condizione di estasi spirituale e di conoscenza poetica che non perde mai l’accordo con l’etimo spirituale di ogni particolare e con la sua base storica di anteriori esperienze poetiche e mistiche.

Sí che l’estrema originalità di questa eccezionale operazione poetica è sostenuta da una folla ben significativa di richiami di tutta una tradizione di espressività simbolica e spirituale, di «auctoritates» poetico-spirituali riassunte in una pressione interna di tradizione attualizzata e fusa nel nuovo atto sintetico.

L’immagine della luce, grazia divina, in forma di fiume, si ricollega chiaramente (come è stato piú volte affermato) a centrali immagini-simboli della Bibbia (Salmo CXLVIII: Le acque che son sopra i cieli...), dell’Apocalisse (XXII, 1: «Et ostendit mihi fluvium acquae vivae, splendidum tanquam cristallum, procedentem de sede Dei et agni»), degli scritti dei padri della Chiesa (S. Ambrogio, De Sanctis: «Civitas Dei illa Jerusalem non meatu alicuius fluvii terrestris, sed ex fonte vitae procedens qui est spiritus sanctus»), della mistica venturina (commento di San Bonaventura all’Apocalisse: «Fluvium aquae vivae, id est felicitatem beatitudinis aeternae, in qua semper sine defectu vivitur... Unde aeterna gloria dicitur fluvius propter abundantiam, splendidus propter munditiam, tamquam crystallus propter transparentiam... Flumen aeternae gloriae est flumen Dei, plenum congregatione sanctorum»). Mentre per la descrizione delle rive dipinte di fiori, per l’incontro di splendore luminoso e di odori inebrianti non si può non ripensare a quel superbo Rhytmus de gaudio paradisi di San Pier Damiano che presentava una scena paradisiaca colma di pingui odori e di colori rutilanti e che stimolava insieme la rappresentazione della tensione dell’anima che «gliscit, ambit, eluctatur frui patria». E concorrono gli echi dell’Ecclesiaste (XXXII, 7: «gemmula carbunculi in ornamento aureo») e dell’Eneide (X, 134: «qualis gemma micat, fulvum quae dividit aurum»).

Ma ciò che piú conta è l’incontro fra questo vasto possesso, nella fervida memoria poetica dantesca, di una cosí coerente pressione di immagini-simboli e il modo superiore di questo possesso da parte di Dante, che supera ogni statica disposizione a intarsio o mosaico di gemmeo splendore (in cui si risolve piú facilmente la contrapposizione medievale fra il transeunte e l’eterno), mentre insieme si diversifica dal successivo procedimento elegante e dotto degli umanisti fatto di inserzioni ed innesti, introducendo un movimento lirico-spirituale che fonde ogni eco e supera ogni squisita eleganza in un’oggettività tensiva, organica e supremamente libera e creativa.

Come il suo pensiero originale ed attivo (assai piú che non il pensiero di un semplice dilettante e di uno scolaro di filosofi) supera, con la sua libertà e complessità e con l’integrazione di intuizione fantastica, ogni semplice aderenza a un preciso ed unico sistema razionale-teologico, e la sua poesia è ben piú che una specie di Tommaso che «canta e non sillogizza», tante sono le punte ardite della sua ripresa averroistica o delle correnti mistiche francescane e di elementi agostiniani e platonici; cosí la sua arte supera di tanto ogni semplice poetica classicistica e ogni semplice adesione alla retorica medievale o alla stessa tematica biblica, apocalittica, mistica con un di piú di originalità, di libertà, di movimento. E lucidità intellettuale, suprema evidenza visiva e tensione mistico-sentimentale si fondono in lui in una intera forza poetica nuovissima e mai riportabile alle semplici forme delle sue «fonti» letterarie e spirituali, pur cosí necessarie alla complessità e storicità della sua operazione poetica.

* * *

A questo punto, dopo le tre terzine ricordate, e secondo il procedimento osservato, la tensione inebriata degli angeli si cambia e traduce e continua nello stesso ardente desiderio del poeta-protagonista di aver notizia di ciò che vede, di commutare visione in conoscenza e coscienza di verità. Moto dialettico essenziale alla costruzione del canto, al ricambio visione-esperienza e coscienza, e modo di riportare ancora una volta la viva presenza di Beatrice nel procedere della esperienza visiva-interna del poeta. Ché, si noti una volta per tutte, il «vedere» poetico di Dante implica sempre tensione al «vedere» stesso e coscienza e volontà e realtà del valore intimo di quel «vedere» come arricchimento interiore spirituale. Donde (sia detto solo fra parentesi) l’assurdità di certi frivoli tentativi odierni di rilucidare, alla luce dell’«oggidí», delle mode odierne, l’immagine della poesia dantesca come poetica dell’oggetto e dello «sguardo» (e magari della pittura materica), laddove l’alta oggettività e lo «sguardo» di Dante son sempre cosí ricchi di soggettività e di tensione di esperienza e di arricchimento interiore, e insieme di fede nella estrema pregnanza morale, spirituale e storica della parola poetica.

Estremamente chiare in tal direzione, e significative per il bisogno di Dante (cosí altamente attuato in questo canto) di giungere alla visione piú vera ed intera, attraverso un movimento di progresso e di avvicinamento (i cui singoli anelli sono in sé definiti e poetici, ma insieme gradi successivamente intensificati di un intero processo tensivo), appaiono le parole di Beatrice. Parole che interpretano ed evidenziano la intima necessità di Dante di avere cognizione piena e chiara di ciò che vede (desiderio che lo infiamma e urge ed è tanto piú gradito a Beatrice quanto piú turge: parole-rima difficili e rare, in coerenza con la sete e il saziarsi, propri di un linguaggio poetico-mistico, di esperienza interiore) e che lo esortano – le parole di Beatrice sono esse stesse in una disposizione di tensione infiammata come di chi partecipa ad una esperienza cosí estrema e impegnativa ed è ben al di là di una pura posizione didascalica – a «bere» dell’acqua del fiume (grazia divina), a riempirsi della sua visione, a immergersi nel fiume di luce per poter rafforzare la sua vista interiore e poter comprendere, impadronirsi della vera realtà sovrumana di quella visione che è ancora «umbrifero prefazio» della sua verità.

Dove si può cogliere non astrattamente (ché tutto in questo canto è densità poetica e le cose dette da Beatrice vivono già poeticamente: e si pensi solo alla forza e freschezza luminosa del «rider de l’erbe» a designare i fiori delle rive del fiume) anche una profonda intuizione dantesca della poesia e della poesia della visione paradisiaca: la poesia è «umbrifero prefazio» della sua stessa interna verità, senza la quale la poesia stessa non avrebbe modo di esprimersi o sarebbe frivolo ornamento e giuoco di immagini. Qualcosa di piú rispetto all’estetica medievale di base, qualcosa di sempre vero sulla realtà della grande poesia, altissima e originale forma di conoscenza della verità, e insieme una definizione suggestiva e immaginosa del procedimento dantesco di una poesia in sviluppo e progresso verso la sua realtà terminale e alla fine coincidente con la verità in cui il poeta crede e a cui egli aspira con tutta la forza del suo animo.

* * *

Sotto questo nuovo stimolo di Beatrice, la fantasia del poeta compie un altro passo avanti, con uno scatto e con un movimento energico e supremamente libero e disinvolto che prospettano, nella stessa costruzione negativa-comparativa, l’intensità con cui Dante si volge, si china avidamente sull’oggetto della sua visione, che non è puro oggetto di fruizione visiva ed estetica, ma stimolo e forza a un progressivo perfezionamento interiore:

Non è fantin chi sí subito rua

col volto verso il latte, se si svegli

molto tardato da l’usanza sua,

come fec’io, per far migliori spegli

ancor de li occhi, chinandomi a l’onda

che si deriva perché vi s’immegli...

Né si dica, con opposta e convergente direzione di censura o di valutazione un po’ gretta, che il paragone con il lattante è uno di quei riportamenti dell’astrusa materia del Paradiso a motivi terreni e familiari e realistici che apparvero spesso come la piú autentica fonte di una poesia altrimenti troppo invischiata nella teologia e nella didascalica e che esso «è immagine d’una singolare immediatezza, ma che in questo momento ci sembra meschina» (come annota il Momigliano, pur con l’attenzione finissima al fatto che «l’immagine è accentrata su quel profilo istintivo: col volto verso il latte»). Ché, a ben vedere, il paragone e l’immagine valgono in funzione dell’avido, intenso movimento di Dante di cui qui il poeta vuol rilevare la componente di istintività, di naturalità autentica e schietta (e Dante appare grande poeta anche per tale sua superiore disinvoltura e libertà nell’uso di un’immagine solo apparentemente «meschina», per una coerenza interna e non semplicemente di decoro e di convenienza classicistica, troppo spesso, a sua volta, misura ben poco adatta alla poesia dantesca, specie nel Paradiso).

Mai mimetismo naturalistico o dispersività sentimentale, ma intima e libera funzione delle immagini che possono essere anche di estrazione contenutistica diversa, eppure si legano senza sforzo e senza stonatura sul filo della organica ispirazione dantesca. Sí che la forza impressa dal paragone col movimento del lattante si può coerentemente svolgere, attraverso l’ardita e preziosa immagine della «gronda» delle palpebre che «bevono» la visione del fiume, nella risultanza di tale intensa vista: la vertiginosa e pur limpida metamorfosi del fiume da lungo a tondo e la visione festante delle due schiere di angeli e di beati.

La stessa violenza con cui affiora la nuova visione, l’«alto triunfo del regno verace», il nuovo piú intenso «vidi», che campeggia ripetuto nelle rime della terzina seguente come parola-chiave di tutto il canto, sollecitano Dante ad un’ultima invocazione che questa volta si rivolge direttamente a quello splendore di Dio, in forza del quale egli ha potuto vedere quanto ha visto e a cui ora chiede la capacità di esprimere piú compiutamente i particolari, la condizione della sua visione.

O isplendor di Dio, per cu’ io vidi

l’alto triunfo del regno verace,

dammi virtú a dir com’io il vidi!

Da questa accesa invocazione, che è insieme stimolo del poeta a se stesso, alla propria poesia, risorge ancora una volta la visione diretta che si dispiega a poco a poco nei suoi particolari e nella sua forma precisa di enorme rosa: immagine ancora una volta sollecitata da un «topos» mistico che già riprendeva ed esaltava in direzione religiosa un simbolo presente nella poesia medievale allegorica e amorosa e che si può appoggiare (secondo l’indicazione del Savj-Lopez) al passo della Vitis mystica: «Necessarium habeamus rosam passionis rosae charitatis conjungere; ut rosa charitatis in passione rubescat et rosa passionis igne charitatis ardeat...».

Ma alla stessa forma sontuosa e limpida del mistico fiore, che consolida la direzione delle immagini dei fiori e della mirabile primavera del Paradiso (qualcosa di vivo, di fresco, di spontaneo, tanto superiore alle immagini ferme delle rappresentazioni della città celeste nelle forme medievali piú consuete, piú mimetiche e naturalistiche, di una città solo distinta da quelle terrene a causa del suo materiale prezioso ed eterno), Dante giunge a poco a poco: attraverso successive immagini e descrizioni e misurazioni e paragoni che perseguono, in una linea di crescendo e di progressiva rivelazione, la trasformazione degli «umbriferi prefazi» nella loro realtà terminale, e che, nell’apparente successione di periodi staccati, implicano invece uno sviluppo denso, organico, di crescente intensità, pienezza e suprema evidenza, culminante nelle ultime terzine di questa parte centrale del «tempo» in cui si inserisce per l’ultima volta la figura e la voce di Beatrice. Prima, piú direttamente collegata alla spinta entusiastica della invocazione allo splendore di Dio, la terzina 100-102

(Lume è là su che visibile face

lo creatore a quella creatura

che solo in lui vedere ha la sua pace)

che esprime una nuova potente circolarità di concetti, di immagini, di pienezza spirituale e poetica: la luce di Dio e il suo stesso splendore, prima invocati, rendono, nell’Empireo, visibile lo stesso creatore a quella creatura «privilegiata» che ha la sua pace nella vista di lui.

E «pace» (una delle parole paradisiache centrali che già era risuonata con piena resa poetico-spirituale nel grande verso del canto di Piccarda «e ’n la sua volontade è nostra pace») si accorda con la parola «vedere» in una tensione che si esalta e si placa in un supremo equilibrio di forze, in una circolarità assoluta di rapporti e di coincidenze: la luce divina fa vedere se stessa, la pace della creatura si realizza nella vista del creatore che le permette quel vedere e quella pace.

Solo dopo questa alta impostazione del modo e della possibilità della visione e del ricavo spirituale che se ne ha, si può svolgere l’ultima visione diretta, piú attenta e precisa: prima attraverso una prospettiva misurativa che enuncia la circolarità della figura della visione e la sua ampiezza, poi, attraverso il ribadito suo rapporto e l’origine dal lume divino a cui, verso il basso dei cieli piú rivolti alla terra, si collega in forma dinamica il movimento trasmesso agli altri cieli da quel primo mobile (che a sua volta forma una superficie solida di riflessione di quel lume); poi, con un piú forte passaggio di fantasia, attraverso il paragone fra ciò che si vien rivelando per la rosa, sede dei beati nelle sue mille foglie, e un declivio di colle che si rispecchia nell’acqua che si trova ai suoi piedi, e vi si rispecchia (con un’aggiunta geniale di forte vagheggiamento poetico) «quasi per vedersi adorno», per ammirarsi nella sua bellezza primaverile quando è «opimo», rigoglioso, nella verdura e nei fiori.

E «adorno», «opimo», «verde», «fioretti» portano un di piú di squisito e di vagheggiato che pertiene non ad un arricchimento ornamentale, ma a quel sentimento di pienezza, di letizia, di allegrezza, che si rivela poi come il sentimento superiore della condizione paradisiaca degli angeli e di quei beati che non a caso sono indicati come «quanto di noi là su fatto ha ritorno», indicando fulmineamente, e senza sforzo, la base umana di quella beatitudine celeste, ma sempre centralmente umana.

E’ si distende in circular figura,

in tanto che la sua circunferenza

sarebbe al sol troppo larga cintura.

Fassi di raggio tutta sua parvenza

reflesso al sommo del mobile primo,

che prende quindi vivere e potenza.

E come clivo in acqua di suo imo

si specchia, quasi per vedersi adorno,

quando è nel verde e ne’ fioretti opimo,

sí, soprastando al lume intorno intorno,

vidi specchiarsi in piú di mille soglie

quanto di noi là su fatto ha ritorno.

E se l’infimo grado in sé raccoglie

sí grande lume, quanta è la larghezza

di questa rosa ne l’estreme foglie!

La vista mia ne l’ampio e ne l’altezza

non si smarriva, ma tutto prendeva

il quanto e ’l quale di quella allegrezza.

Presso e lontano, lí, né pon né leva;

ché dove Dio sanza mezzo governa,

la legge natural nulla rileva.

Poi ancora, sulla spinta di un’esclamazione ammirativa, che rinnova e reinventa i modi entusiastici del manifestarsi della visione (consolidata nell’immagine ormai definita ed evidente della rosa), la misurazione della ampiezza di quella luce che già nella sua base era apparsa tanto piú larga del sole. Immagine svasata che si innalza come fiammeggiante e miracolosa, e pur evidente e sensibile. Ché, sia detto una volta per tutte, il linguaggio dantesco nel Paradiso si esalta in forme di luce e di musica, ma non si «scorpora», non perde la sua forza di densità sensibile, non si risolve in un puro barbaglio o in una musica rarefatta, ma anzi la plasticità dell’Inferno, la sfumatura pittorica e musicale del Purgatorio vengono come riassorbite in una superiore dimensione di densità, in uno spessore superiore di sensibilità e di evidenza mai astratte e sfocate (ché la poesia del Paradiso è sí adeguazione ad una poetica particolare, ma è insieme il risultato finale delle esperienze poetiche delle cantiche precedenti).

Ed anche perciò il poeta, consapevole della sua forza, sente ora il bisogno di affermare la sua piena capacità visiva pur in uno spettacolo di tanta immensità e profondità, la sua possibilità di «prendere», di far sua la quantità, l’estensione e la qualità di quella allegrezza, di quella beatitudine, poiché la sua esperienza è giunta ad un punto in cui le insufficienze umane e i limiti spaziali, le leggi di natura, sono vinte, e coerentemente la sua potenza fantastica si è fatta sintetica e intera.

Infine, al sommo di tutto questo ritmo ascendente, la piú piena e spiritualmente tesa rappresentazione della rosa sempiterna, al cui centro Dante è condotto da Beatrice, che con le sue parole e le sue ardenti sollecitazioni a «mirare» e «vedere» integra e completa (con un intreccio nuovo di movimento, di atti, di parole) la rivelazione della verità della mistica rosa.

Nelle grandi terzine seguenti (124-132) la realtà della rosa, realtà sensibile e simbolica, viene interamente espressa nella sua maggiore pienezza evidente e sensibile: di essa si rivelano la reale consistenza di rosa col suo centro giallo e maturo, la svasatura in gradi salienti verso l’alto, l’olezzo di un odore che insieme si rivela spiritualmente come odor di lode a Dio che sempre «verna». E ben si vede, come sopra dicevo, che le componenti sensibili sono svolte fino al senso quasi sensuale del raffinato «redole», che è poi un raro latinismo virgiliano, e agli ardui e preziosi accordi fonici («dilata ed ingrada e redole / odor di lode»), ed insieme si approfondiscono gli inerenti significati spirituali: un profumo che è profumo di santità e di vita risolta nella lode di Dio, di un Dio che è vita perenne, perenne creazione di vita primaverile.

E ancora insieme si ripresenta la figura di Beatrice, le cui parole son preparate da un silenzio tensivo, pieno di volontà di dire («qual è colui che tace e dicer vole»), sí che poi le sue parole si affacciano cariche di nuova, interna tensione e si allargano in un’esortazione-indicazione commossa che completa la rappresentazione della mistica rosa:

e disse: «Mira

quanto è ’l convento de le bianche stole!

Vedi nostra città quant’ella gira:

vedi li nostri scanni sí ripieni,

che poca gente piú ci si disira.

* * *

È proprio dal sommo di questa tensione e pienezza che si esprimono, sulla bocca di Beatrice e quindi con un suggello di autorevolezza definitiva, il senso e la verità della città celeste ormai quasi completa di abitanti (rivelati nella loro immedesimazione con le stole bianche della tradizione apocalittica e liturgica: «amicti stolis albis», Apocalisse, VII, e la «stola gloriae» dei beati tante volte evocati da San Pier Damiano), e insieme si apre l’ultimo breve «tempo» del canto (vv. 133-148). Tempo che, ad una considerazione gretta di astratta poeticità e astratta coerenza (che è spesso alla base del piú profondo frammentarismo dei metodi di «poesia e non poesia» o della «poesia pura»), potrebbe apparire come una digressione oratoria, passionale, polemica, discordante dai toni supremi attinti nelle terzine precedenti e nello sviluppo del canto sino a questo punto.

Certo si tratta di un passaggio che implicava difficoltà e che perciò tanto piú riprova la grandezza di Dante (come osservò profondamente, con parole tutte memorabili, il Momigliano): «ci voleva (egli disse) una straordinaria sicurezza di pensiero, fermezza di ideali, quadratura di mente e forza poetica perché il trapasso da una visione infinita ad una materia contingente non riuscisse una miserabile stonatura».

Ma, appunto, Dante era un poeta di eccezionale grandezza ed era tale proprio anche per la forza dei suoi ideali, del suo alto sentimento di giustizia e di moralità, e per quel suo impegno etico-politico senza del quale sarebbe male spiegabile tutta la sua stessa esperienza poetica, che ha raccordi almeno con princípi di civiltà, persino nella Vita Nuova, in cui Beatrice vale per tutta la «città», è principio di ordine e quasi canone di armonia per quella ideale comunità che piú tardi nel XV del Paradiso Dante vagheggerà, piú che con nostalgia di un passato irrecuperabile, con ferma fede in un possibile simile futuro. E si pensi almeno (proprio nel passaggio, dopo la Vita Nuova, alla nuova tematica dottrinale-morale, al realismo della Tenzone con Forese, a quello altissimo delle petrose) a quanto dové contribuire all’allargamento delle sue prospettive umane e poetiche, alla genesi del suo sentimento della realtà, quella stessa diretta partecipazione alla vita politica che offrí poi materiale vivo alla sua esperienza e rafforzò concretamente i suoi ideali di giustizia, i suoi ideali di riforma mondana e religiosa. E nella Commedia l’elemento etico-politico (mentre nella Monarchia spingeva il suo pensiero alle sue punte piú ardite di autonomia e di iniziativa razionale sull’appoggio dell’averroismo) ben costituí la base di raccordo fra la sua visione poetico-profetica e la sua dolente esperienza di esule e di uomo appassionato per le sorti del mondo.

Perciò tanto meglio (quanto piú si capisca l’unione indissolubile fra la sua poesia e quell’elemento) si possono giustificare questo ultimo «tempo» del grande canto, la sua necessità in esso e in questa ultima zona del Paradiso, il fatto che l’apoteosi di Arrigo VII e la dura, severa e calma condanna del papa Clemente V (e con lui Bonifacio VIII e con essi la tendenza ierocratica e temporalistica della Chiesa) siano poste in bocca a Beatrice teologa, «loda di Dio vera», interprete delle parole di Dio, suprema ragione di vita e di poesia per Dante.

Dante aveva bisogno di chiudere il canto ribadendo, attraverso questo ultimo messaggio di Beatrice, i suoi ideali supremi proprio in cospetto della città santa e dei beati. Cosí facendo egli dava insieme a quei suoi ideali il suggello di una parola suprema e in una scena suprema, e completava la sua visione della mistica rosa e della vicina pienezza dei tempi con il richiamo alle ragioni stesse che lo avevano anzitutto mosso alla sua impresa poetico-profetica.

E se questo episodio riprende il lungo dispiegamento, attraverso tutto il poema, di quei suoi ideali, ora egli li raccoglie intorno alla vicenda piú vicina e drammatica, l’impresa dell’«alto Arrigo» e il suo fallimento, attribuito sí alla cupidigia stolta degli italiani, a un errore degli uomini e del tempo non preparati, ma soprattutto allo scellerato comportamento di Clemente V. Quella vicenda, che in altri spiriti avrebbe provocato solo delusione e abbandono o ripiegamento in una pura e semplice posizione religiosa, in Dante aveva coerentemente sollecitato una piú forte fede nella giustezza dei suoi ideali e nel giudizio che Dio avrebbe dato di essi e dei loro avversari.

Né questo episodio può essere giustificato solo per queste ragioni profonde, ma astrattamente e indipendentemente dalla consistenza poetica del testo. Questo ha una sua ferma e pacata grandiosità, un andamento solenne (quasi di voce di organo), scandito con ritmo severo, in cui la voce di Beatrice sembra farsi voce di Dio con la sicurezza dei «futuri» che riprospettano la drammatica vicenda sulla direzione di una prospettiva che, attraverso la condanna all’inferno di Clemente V, pare prolungarsi idealmente in una serie di interventi divini che riequilibreranno sicuramente la sconvolta scena mondana, come già assegnano idealmente premio e condanna ai giusti e agli ingiusti.

E ’n quel gran seggio a che tu li occhi tieni

per la corona che già v’è su posta,

prima che tu a queste nozze ceni

sederà l’alma, che fia giú agosta,

de l’alto Arrigo, ch’a drizzare Italia

verrà in prima ch’ella sia disposta.

La cieca cupidigia che v’ammalia

simili fatti v’ha al fantolino

che muor per fame e caccia via la balia.

E fia prefetto nel foro divino

allora tal, che palese e coverto

non anderà con lui per un cammino.

Ma poco poi sarà da Dio sofferto

nel santo officio; ch’el sarà detruso

là dove Simon mago è per suo merto,

e farà quel d’Alagna intrar piú giuso.

L’episodio infatti è un alto contrasto poeticamente concretato. Da una parte l’apoteosi di Arrigo VII, che siederà sul seggio, quasi trono, preparatogli in Paradiso e già sormontato di una corona imperiale (e tutto è coerente a questi toni solenni di apoteosi: il gran seggio, idealmente superiore o individuato come tale fra gli altri seggi della mistica rosa, «la corona che già v’è su posta», l’alma che fia giú «agosta», l’«alto Arrigo», e persino l’espressione nobile e solenne con cui si indica la morte e la salita in cielo post mortem di Dante, destinato al Paradiso: «prima che tu a queste nozze ceni», che richiama l’apocalittico XIX, 9, «ad coenam nuptiarum Agni vocati sunt»). Dall’altra, la condanna di Clemente V, l’apparente momentaneo vincitore, di cui si parla con toni sicuri di dura e calma condanna ad indicare la sproporzione fra il suo agire ambiguo e la sua altissima carica («prefetto nel foro divino», «santo officio»), a sottolineare la forza decisa, e perciò non passionale, con cui Dio lo caccerà e sprofonderà (ma «detruso» è piú forte e potentemente risveglia l’idea opposta d’«intruso» nel «santo officio») in quel cerchio di simoniaci che raccoglie i papi corrotti, in un’accezione di simonia che allude non tanto a particolari e singoli peccati di singoli papi, quanto soprattutto al supremo peccato di aver cercato beni temporali alienando cosí la Chiesa dalla sua missione spirituale. Che è, si ricordi bene, la ferma accusa di Dante alla Chiesa della sua colpa per lui piú vera e profonda, verificata qui nel caso di Clemente V, ma realmente presente, per Dante, in tutta la tradizione della Chiesa postcostantiniana. Sicché la stessa forza di questa ultima e precisa condanna richiede poi la giusta comprensione di tutta la prospettiva dantesca che invano qualche recente studioso vorrebbe sfumare in una contingente opposizione a singoli papi, fautori di una potestas directa, e in una accettazione di quella dottrina della potestas indirecta in temporalibus che a Dante invece sarebbe certo apparsa ancor piú ambigua e insopportabile dell’altra.

L’episodio cosí, capito nella sua forza riepilogativa di un alto centrale motivo dantesco, e nelle ragioni della sua necessità in questo canto, sembra addirittura arricchire, a ritroso, la organicità e la coerenza della grande visione della mistica rosa e della «loda» di Beatrice con il fermo richiamo agli alti ideali promotori della poesia dantesca. Ed esso è proprio il suggello piú adatto al canto, chiude la circolarità sintetica dei supremi ideali religiosi, spirituali, umani, politici e poetici di Dante entro un completamento della stessa figura di Beatrice: bellezza e teologia, e insieme voce di giudizio e di giustizia.

La visione si fa profezia, Dante si precisa piú fermamente poeta-personaggio e poeta-profeta in questa zona suprema, vivo con tutti i suoi ideali e mai veramente dimentico dei rapporti della sua visione religiosa con la terra e gli uomini e la storia, e cui la sua poesia si rivolge e vuole rivolgersi mai perdendo di vista una missione di riforma e di intervento.

Perché Dante (non lo si dimentichi in questo centenario che vede cadere vecchie interpretazioni troppo alla luce della «poesia pura» e di «poesia e non poesia», ma che può far cadere in una considerazione parziale del «puro tecnico» volto ad una specie di rievocazione del «tempo perduto» e dell’altissimo «letterato») volle essere soprattutto un poeta per gli uomini e per la loro intera «salute», per la realizzazione sí della «beatitudo aeternae vitae», ma insieme della «beatitudo huius vitae» fatta anzitutto di giustizia, né mancò mai al suo ardente e profondo sentimento religioso il saldo sentimento del mondo della storia e della società civile.

E certo, come egli non mancò affatto di una volontà di interpretazione della storia drammatica del suo tempo (donde il deciso accenno, in quest’ultimo episodio, alla sproporzione fra la giustezza dell’impresa dell’alto Arrigo e l’immaturità della situazione italiana del suo tempo), egli volle con la sua poesia dare un’alta risposta ai problemi di quella storia. E se anche ciò potrà sconfinare in una grandiosa utopia, questo non toglie nulla alla sua impostazione di una poesia come missione, come altissimo impegno di collaborazione ideale e storica di riforma e di intervento trasformatore. E ciò si connette con una concezione poetica altamente paradigmatica che collega organicamente (non immiserisce) la forza della sua libera fantasia ad un fine unitario e centrale di messaggio, di rivelazione di una verità pragmatica, ad un’idea di integrale responsabilità del poeta, dai suoi contenuti storici, ideali, morali fino alla loro intera espressione artistica.

Questa possente organicità, questa responsabilità intera della poesia sono proprio motivo essenziale della piú alta lezione che Dante dà al nostro stesso tempo e alle nostre domande sul significato e le ragioni e le prospettive della grande poesia. Il fatto che alla fine di questo grande canto, in cui la forza fantastica di Dante tocca una potenza prodigiosa e vertiginosa, il poeta abbia sentito la necessità di concludere con un simile episodio, ci conferma concretamente il senso di questa sua lezione e di questa sua esemplarità.